Quello che fu

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    ‹ °^° ›

    Group
    Administrator
    Posts
    1,010

    Status
    Offline

    Alcuni ci chiamano eroi.
    Altri ci chiamano criminali e assassini.
    Molti ci definiscono cani fedeli al loro padrone che brancolano nei bassifondi della città.
    Pochi osano chiamarci dei.
    Noi preferiamo essere definiti Gladiatori.
    Esseri che vivono per combattere, e combattono per sopravvivere.
    In un mondo dove parole come ‘ legge’ e ‘ libertà’ sono solo una leggenda.



    - Capitolo 1 -


    Era in trappola.
    Ne era consapevole.
    Aveva fatto un ottimo lavoro, era filato tutta liscio come l’olio: niente inseguitori, oggetto recuperato senza neanche troppa fatica, missione completata anche se aveva dovuto tramortire un po’ di guardie.
    Ma nonostante qualche piccolo e infimo inconveniente tutto era andato secondo i suoi piani.
    Questo era ciò che aveva pensato quando stava fuggendo con il bottino in tasca ma non aveva tenuto conto di una cosa, una cosa molto importante: quelli della famiglia Novarus avevano sempre un asso nella manica da buttare in campo all’ultimo minuto.
    Essere sottovalutati.
    Una strategia che faceva di quella famiglia una delle più rispettate e temute: ecco perché avevano scelto lui per questa missione, perché non pensavano che sarebbe caduto in quel tranello.
    Invece c’era proprio cascato in quella trappola, con entrambi i piedi.
    - Ero così vicino...maledizione.- sussurrò fra i denti mentre il suo sguardo vagò sull’capannone abbandonato dove si era rintanato come un ratto, mentre teneva in mano la sua pistola ancora fumante stretta nel pugno.
    Cercò di non perdere la concentrazione e non farsi prendere dalla tensione, di mantenere il sangue freddo.
    Buttò fuori l’aria che tratteneva nei polmoni e rilassò ogni muscolo in tensione nel suo corpo, e analizzò con calma tutta la situazione, senza tralasciare neanche un dettaglio.
    La colonna cui la sua schiena poggiava era abbastanza grande da contenere la sua schiena, e si innalzava proprio al centro del capannone come colonna portante.
    Il tetto sopra di lui era formato da un debole quanto arrugginito scheletro di ferro che sosteneva marce assi di legno interrotte qua e la da cedimenti: una di queste, spezzata dalla furia degli anni e delle intemperie, penzolava macabra proprio sopra la sua testa come una lama pronta per giustiziarlo.
    Cattivo presagio, non c’era alcun dubbio.
    Il pavimento, invece, dove poggiavano i suoi anfibi rivestiti d’acciaio era semplicemente terreno.
    Niente sabbia, quindi niente trucchetti da usare per distrarre, o meglio accecare, il suo inseguitore.
    Per il resto tutto quel capannone era completamente vuoto.
    Nessun attrezzo, nessun rottame, nessun veicolo arrugginito. Niente di niente.
    Le uniche cose sparse per terra un po’ dappertutto erano appunto pezzi di asse di legno.
    Poi era la volta delle finestre, se potevano definirsi tali: erano a circa 7 metri dal suolo, senza vetri, sbarrate da pezzi di ferro come quelle delle prigioni.
    Un senso di claustrofobia intanto gli attanagliò lo stomaco.
    Non vi erano possibilità di uscita tranne la porta da cui era entrato dove adesso si stagliava trionfante la figura del suo inseguitore: punto strategico. Non poteva obiettare, perché avrebbe fatto lo stesso, quindi si limitò a maledirlo.
    In più c’era un’altra cosa che lo teneva in scacco: il fatto che gli rimaneva solo un colpo, ancora chiuso in una delle taschine della giacca mimetica, una di quelle che rifilavano ai militari, che portava addosso.
    Era in trappola.
    Per la sua grande stupidità e leggerezza nell’aver sottovalutato tutto quello che riguardava quella missione, si maledisse.
    Poteva essere nella sua stanza, a fumarsi una bella sigaretta davanti alla televisione, sul divano, sorseggiando fra un tiro e l’altro dell’ottimo gin.
    Invece no.
    Era caduto in trappola e se non gli fosse venuta in mente un qualche tipo di idea, in quella topaia ci sarebbe rimasto secco.
    E lui non poteva permetterselo.
    Sospirò, per poi tirare fuori da una tasca all’interno della giacchetta una piccola sferetta luminescente, il mitico oggetto che doveva recuperare.
    Chissà che cosa diavolo era, quell’oggettino così minuscolo che era stato posto in una stanza sopra un cuscino di velluto, sistemi di allarme posti dovunque come se quella biglia che aveva in mano fosse un tesoro inestimabile.
    Eppure era piccola e all’apparenza senza valore.
    Ovviamente il suo compito non era quello di fare domande al Boss, e Solomon Nostras non è un tipo che ama sentirsi fare domande dai propri sottoposti, o meglio schiavi per come la vedeva lui.
    Cani che dovevano obbedire ciecamente al proprio padrone: per questo motivo a loro non era data la libertà di fare domande o obiezioni.
    Dovevano semplicemente obbedire.
    Rimise la sferetta al suo posto, dandosi dei colpetti sulla parte del petto dove l’aveva riposta.
    Sospirò di nuovo.
    Non aveva altra scelta. Doveva inventarsi qualcosa.
    Poi una voce, quella voce a lui familiare, distrusse il suo silenzio meditativo e non poté fare altro che ascoltarla.
    - Arrenditi. E’ finita ormai, mi sono stancato di giocare a rincorrerti. - la voce fredda, un po’ irritata dell’asso della Novarus si alzò nel silenzio rimbombando fra le pareti umide e macchiate di muffa.
    - Hai proprio ragione. Stavolta è davvero finita.- disse con voce arrendevole il ragazzo da dietro la colonna di ferro, guardando la pistola che teneva in mano, per poi tirare fuori la pallottola che teneva nel taschino.
    - Ehi, El. Quante munizioni ti rimangono ancora?- chiese caricando la pistola con quell’unico ultimo colpo.
    - Abbastanza per aprirti lo stomaco e ridurre ad un colabrodo quella testa che ancora sta sopra il tuo collo.- rispose gelido, avanzando di un passo e caricando le pistole che teneva nelle mani che penzolavano ai suoi fianchi con ingannevole rilassatezza.
    L’inseguitore aveva i capelli neri, come i corvi che abbondano nei borghi della città più malfamati, tanti quanti sono i cadaveri che vi si trovano. Occhi di ghiaccio, azzurri come un cielo privo di qualsiasi gioia o sentimento felice. Volto leggiadro scavato nella parte destra da cicatrici che svanivano sotto la parte metallica impiantata sotto il suo zigomo e sopra l’occhio destro, mentre un’altra placca gli sfregiava la capigliatura sopra l’orecchio girando intorno alla testa fino a bloccarsi all’altezza della nuca.
    - Io invece...ne ho solo uno.- sentenziò con rammarico ammirando la sua pistola, amica e compagna di avventure e disavventure come quella.
    - Non ti avrei fatto così stupido. Dire ad un nemico quanti colpi ti rimangono. Quanto sei caduto in basso, eh? Dragan?- chiese spostando un ciuffo di capelli neri che gli cadevano sull’occhio destro con la canna della sua MAD 343.
    Dragan rimase interdetto per un attimo, il suo volto si offuscò: non sapeva cosa rispondere, perché effettivamente lui aveva ragione.
    Quando mai avrebbe detto qualcosa di simile ad un nemico? Lui che il suo silenzio uccideva più delle sue stesse armi.
    Probabilmente era per un altro motivo. Perché lui non avrebbe mai associato all’idea di ‘nemico’ quel suo inseguitore.
    - Non pretendere che ti consideri mio nemico. Tu non lo sei. Non lo sei mai stato e non lo sarai mai.- Frammenti di passato gli scivolarono fra le mani.
    - I tempi sono cambiati. Rassegnati alla realtà. La realtà è questa. Non cercare di vivere in un sogno, perché tu sai quanto questo si possa trasformare in un incubo, vero? Le nostre strade si sono divise tempo fa. Adesso tutto è cambiato. E tu sai il motivo.-
    Dragan si portò una mano all’occhio sinistro, o meglio a quella lente rossa di vetro, che non lasciava trasparire il suo interno, racchiusa da parti metalliche che sostituivano il luogo dove un tempo vi era la sua orbita.
    - Tsk...- sussurrò un gemito di disprezzo.
    - Dammi la sfera e sparisci dalla mia vista, se lo fai chiuderò un occhio, per questa volta.-
    - Da quando scendi a compromessi, eh. Elagabal? - chiese in risposta a quella specie di patto che gli era stato servito su un piatto d’argento: era per il suo maledettissimo orgoglio che non avrebbe ceduto a simili compromessi. Piuttosto avrebbe combattuto a mani nude.
    Quello che gli giunse alle orecchie lo fece sbellicare dalle risate.
    Aveva colpito nel segno. Lo aveva fatto alterare e non poco. Si trovava in guai seri, ma tutto ciò lo faceva divertire, e non sapeva neanche il perché.
    - Da quando tu vai a farti fottere da Nostras.- Elagabal non riuscì a fermare quella frase, quell’acidità della sua voce mentre i brividi gli percorrevano le mani guantate.
    Sfogare la sua rabbia adesso era farsi debole di fronte ad un nemico. Mai.
    Non lo avrebbe mai fatto.
    Il fragore delle risate di Dragan si sparse per tutto l’hangar facendo tremare le pareti.
    - Tu lo sai. Lo sai benissimo che non è stata colpa mia.- disse alzandosi in piedi strisciando la schiena sulla colonna fredda.
    - Certo come no. Odio rivangare il passato. Soprattutto quello che ci accomuna. Mi fai venire il voltastomaco, tu non dovresti nemmeno esistere...- si fermò alzando entrambe le braccia all’unisono e la sua voce si fece tagliente – Adesso mi sono veramente rotto. Getta l’arma, ed esci fuori con la sferetta in mano. Se non lo fai, non esiterò a riempiere di piombo quella carne umana che ancora ti resta. –
    Elagabal era deciso a fare delle sue parole un realtà, nei suoi occhi fredda determinazione.
    Dragan si portò una mano alla tempia e si pettinò i capelli biondi della sua parte sinistra all’indietro, gli unici che ancora gli rimanevano dopo quel giorno, e una domanda gli vagava nella testa: cosa avrebbe fatto?
    La situazione non era delle migliori. Avrebbe potuto cavarsela ma ancora una volta aveva solo peggiorato la situazione.
    L’unica cosa non stupida che poteva fare era assecondare le sue richieste.
    - E va bene, El. Hai vinto tu, per stavolta.- disse ad alta voce con tono di arresa per poi stendere con un solo movimento il braccio sinistro con in pugno la pistola.
    Elagabal restò immobile, pronto a sparare ad un solo segnale di sfida o di offensiva. Puntò le canne delle pistole a quel braccio.
    Dalla parte opposta Dragan rimase un attimo interdetto sul cosa fare, ma alla fine optò per seguire l’ordine di Elagabal, anche se non era da lui obbedire alle parole di uno che non era Solomon Nostras.
    Gettò la pistola a terra, sollevando così un po’ di polvere.
    - Eccomi.- disse muovendo un passo fuori dalla colonna, mostrandosi al ragazzo dai capelli corvini che gli stava di fronte, suscitando in questo un attimo di agitazione: lo vide.
    Riuscì a percepire il lento movimento delle ciglia che si rilassarono per un attimo per poi corrugarsi di nuovo in quell’espressione da duro che gli alienava il suo volto da ragazzino.
    - Alza le mani e mettile dietro la nuca.- la mira lentamente si spostò una al cuore e l’altra alla testa.
    Dragan non oppose la benché minima resistenza e fece ciò che gli aveva ordinato.
    Non aveva un piano preciso. Ma pensava che qualcosa gli sarebbe venuto in mente per fuggire da quella situazione, e sperava tanto che gli arrivasse presto.
    - Prendi la sferetta con la mano destra e porgimela. Una sola mossa falsa e ti uccido.- nella sua voce una nota di irrefrenabile agitazione.
    - Sai che sono mancino...- disse lui per poi fare una smorfia di disappunto e abbassare lentamente la mano destra. Rovistò nella taschina interna della giacca e sentì come la presa di Elagabal si fece più forte sulle armi.
    -Tranquillo. Te l’ho detto. L’ultimo colpo è nella mia pistola.- disse gettando uno sguardo sull’arma ai suoi piedi.
    Prese la sferetta e la tenne fra il pollice e l’indice e allungò il braccio in direzione di Elagabal.
    - Bene. Adesso poggiala delicatamente a terra e allontanati fino alla parete in fondo del capanno. Fallo.- i suoi occhi di ghiaccio fissavano l’oculo rosso di Dragan e l’altro occhio castano come la nuda terra.
    - Prima però toglimi una curiosità. Che cosa diavolo è questa? Insomma un oggetto così insignificante, che valore potrà mai avere?- chiese mostrando la sferetta, sottolineando il fatto che quell’oggettino era davvero minuscolo.
    - Non ne ho la più pallida idea. Ma tu lo sai. Quelli come noi non possono fare domande. E adesso fai quello che ti ho detto.- mosse un passo verso di lui, cauto e felpato come un leopardo.
    - Hai ragione, sì. Noi siamo Gladiator. Niente di più. Niente di meno. Noi che combattiamo per vivere e viviamo per combattere. Noi schiavi di questo malato e drogato sistema. Ma noi...in realtà che cosa siamo, Elagabal? Io, tu. Quelli come noi. Cosa diavolo ci stiamo a fare ancora qua quando dovremmo essere già all’altro mondo?- chiese cercando di fargli allentare la tensione che percepiva attraverso le bocche nere delle pistole.
    Elagabal rimase in silenzio.
    Un silenzio strano, non dettato da nessun sentimento.
    In quel momento quelle parole arrivarono dritte alle sue orecchie, e quella domanda. Una domanda che si era sempre posto.
    Noi, chi siamo?
    Dragan lo notò. Ormai era abituato a cogliere ogni minimo movimento del corpo, anche quello più insignificante, per sapere quanto le sue parole erano andate ad intaccare quell’animo, quanto le sue parole avessero danneggiato quella barriera che li separava.
    La tensione sul volto del ragazzo dai capelli corvini si era allentata, i suoi lo fissavano. Sentiva il peso del suo sguardo.
    Sguardo che altri uomini, comuni e semplici esseri umani, non avrebbero certo sostenuto.
    - Ormai ti conosco fin troppo bene. Io so che tu sai quali sono i miei punti deboli. Questo ti mette in grande svantaggio. Non mi abbindolerai così facilmente come pensi.- disse scrocchiandosi le ossa del collo.
    - Già. Hai ragione. E’ da un po’ di tempo che non ci si vede eh? Quanti anni saranno passati? 5...?-

    - No. 6. Quante sono le ragioni che bastano per ucciderti in questo momento. Fa quello che ti ho detto. Adesso.- la sua intimazione risuonò ancora più amara di quella precedente.
    Tentativo di persuaderlo fallito miseramente.
    Dragan Nosferus abbassò lo sguardo alla piccola sfera che stringeva fra le dita.
    Nel briefing che aveva preceduto l’inizio di quella missione gli era stato ordinato di portare la sferetta alla Mansione.
    Non avevano specificato il ‘come’.
    Di tutte le idee che potevano venirgli in mente in un momento simile, prossimo a sentirsi due proiettili di piombo trapassargli il cuore e il cervello, quella era decisamente la più stupida.
    O forse la più geniale.
    - La vuoi giusto?...- chiese figurandosi cosa potesse accadere dopo, le sue gambe fremevano.
    - Mettila a terra. Adesso.- mosse un altro posso, minacciando sempre con le pistole i punti vitali che ormai era abituato a mirare.
    Elagabal aveva un bruttissimo presentimento.
    Conosceva Dragan, ma ormai erano passati diversi anni. Sapeva che la sua arma migliore più del silenzio che teneva quando combatteva, più della velocità e precisione dei suoi colpi, più della sua innata abitudine nel cacciarsi nei guai, era qualcosa che non ci si aspettava facilmente da uno come lui, da uno come loro.
    L’imprevedibilità.
    Nessuno mai sapeva cosa passava per la testa a Dragan Nosferus.
    - Se ci tieni alla pelle, metti quella sferetta giù. Non me lo fare ripetere.- eppure era come se le sue intimidazioni fossero tutte vane.
    Lo vedeva dal sorrisetto irritante che gli attraversava il volto, lo vedeva dal suo solo occhio umano che lo fissava, che lo sfidava.
    Stava per accadere qualcosa. Qualcosa che nella mente del Gladiator della famiglia Nostras era già prestabilito. Già disegnato.
    - Ai tuoi ordini...El.- un gesto velocissimo, portato nell’attimo in cui Elagabal aveva abbassato la guardia nel pensare a cosa avrebbe fatto e la sferetta venne lanciata e accolta nella bocca per poi essere inghiottita.
    - Che schifo.- sentenziò sotto gli occhi attoniti dell’altro cui iniziarono a tremargli le braccia.
    Elagabal rimase di stucco. Di tutte le mosse che poteva immaginarsi quella di certo non gli era passata in mente.
    Rimase a bocca semiaperta in un espressione che rasentava lo shock.
    Quella missione, il recupero della sfera. La sua possibilità di riscattarsi. Di essere di nuovo libero.
    Svanita, anzi no. Divorata.
    Iniziò a fremere dalla rabbia, la sua anima urlò, riprese il controllo dell’azione, vide Dragan che si massaggiava lo stomaco e sorrideva divertito da tutto questo.
    L’odio invece gli stava massacrando lo stomaco.
    - Che cosa ridi!! Hai appena divorato la mia speranza di riscatto!! Io ti ammazzo, brutto stronzo!!- urlò sfogando tutta l’aria che aveva tenuto dentro i polmoni.
    E iniziò a sparare, un colpo dopo un altro. Di fila. Senza pensare a niente.
    Solo preso dalla pazza furia derivata da quella sua rabbia, sembrava fosse un animale. Una fiera indomita il cui solo desiderio che alimenta la sua anima è quello di divorare chiunque si trovi entro la sua vista.
    Dragan dopo aver visto quanto lo aveva fatto arrabbiare, non sapendo neanche quanto simile oggetto poteva valere per lui, prima che Elagabal potesse sparare raccolse la pistola e si gettò dietro la colonna che risuonò macabramente ai colpi continui delle pistole.
    - Vieni fuori stronzo! Voglio farti a pezzi! Sventrarti e raccogliere dalle tue membra quella cazzo di sfera!! Se ti rimane ancora un po’ di dignità esci fuori maledizione!!- urlò ansimando, ma ormai ogni tentativo di riprendersi dalla rabbia era inutile.
    - Merda, adesso sì che sono nei casini fino al collo...e sono pure allo stadio di partenza. Che schifo, aveva un sapore disgustoso.- sussurrò fra sé e sé.
    Prese la pistola e la pose nella fondina che teneva sotto l’ascella destra: non aveva altra scelta. Doveva usarlo.
    Anzi no. Se lo avesse usato lo avrebbe di certo ucciso e quell’idea non gli piaceva affatto, anche se Elagabal non avrebbe tardato un secondo di più a sparargli.
    - Non ci voleva.- disse per poi allontanarsi dalla colonna, in modo da seguire la sua ombra, così da non esporsi al fuoco nemico.
    Si fermò, quanto bastasse per fare una cosa.
    - Mi sono stancato...- La voce di Elagabal era come quella di un serpente, velenosa. Aveva gli occhi iniettati di sangue e di istinto omicida.
    Iniziò ad avanzare, passo dopo passo, verso la colonna. Lentamente restando con i sensi all’erta, cercando di cogliere ogni singolo rumore.
    Tre proiettili nell’una, due nell’altra. Bastavano ed avanzavano.
    Poi qualcosa, un rumore di legno frantumato, un fruscio, uno spostamento d’aria.
    - Che cos...- non riuscì a capire cosa stesse succedendo poi la colonna di ferro venne percorsa da una tremenda scossa e il boato riempì l’aria.
    - Merda.- Non fece a tempo a capire cosa fosse successo che la colonna iniziò inclinarsi nella sua direzione, rumore di metallo sordo e questa si staccò dal soffitto.
    Il ragazzo si mosse velocemente in direzione della porta mentre la colonna si infrangeva al suolo ad un centimetro dai suoi piedi che falciavano l’aria e il terreno.
    Tutto stava crollando, le assi di legno e lo scheletro di metallo non avendo più un qualcosa che li reggeva iniziavano vorticosamente a cadere in terra, macerie su macerie alzando una nube di polvere e detriti legnosi.
    In pochi secondi il capannone era ridotto ad un cumulo di pezzi.
    - Fottuto bastardo...- sussurrò Elagabal guardando dall’alto in basso Dragan riverso a terra coperto per metà busto dalle macerie, probabilmente svenuto.
    Lui non ce l’aveva fatta a raggiungere l’uscita in tempo per non restare schiacciato dal tutto. Lo aveva visto di sfuggita percorrere la lunghezza della colonna che lui stesso aveva abbattuto per poi tentare la sorte con un salto.
    - Il solito fottuto idiota.- disse caricando la pistola. Aveva il volto sereno, la follia gli era passata così come la rabbia perché su queste si era abbattuto l’istinto di sopravvivenza.
    E adesso lui era lì, torreggiante su Dragan che era immobile. Inerme.
    Elagabal splendeva in tutta la sua letale bellezza.
    Lo fissò, lo guardò.
    Entrambi avevano il volto coperto di polvere, ferite lievi da taglio e capelli scomposti e sudici.
    Lui, Dragan, nella parte sinistra del volto aveva impiantate le placche di metallo, le stesse che aveva Elagabal. Ma a lui prendevano tutta l’estensione della parte sinistra del volto, fin sopra un ciglio che adesso non aveva più.
    Per tutto il profilo sinistro fino alla nuca visto che l’orecchio gli era stato mozzato.
    Per tutta la stessa metà della testa non aveva più capelli, quei capelli biondo paglia che lo facevano sembrare un essere divino che ancora si potevano ammirare nella parte destra della sua testa, ma al posto di questi cicatrici da fuoco gli divoravano la pelle tenute alla vista di tutti, perché anche lui non si dimenticasse di quel giorno.
    Le stesse cicatrici che erano presenti anche sotto quelle placche di metallo.
    Metà essere umano, metà mostro di metallo e di cicatrici.
    Presente e passato che si cozzavano fra di loro.
    Lui invece quelle stesse cicatrici ce ne aveva di meno, anche le sue nascoste dalle placche.
    Elagabal in realtà non voleva vederle mai più. Le aveva coperte tutte quante.
    Aveva soffocato con loro il suo passato.
    - Noi siamo dei. Siamo demoni e dei allo stesso tempo. E allo stesso tempo siamo schiavi, cani obbedienti al proprio padrone. Ecco cosa siamo.- disse accovacciandosi accanto a lui e sussurrandogli nell’orecchio.
    Poi gli puntò una pistola alla tempia, respirava ancora, era vivo.
    Lo avrebbe finito con un solo colpo, gli avrebbe risparmiato una grossa fatica. Almeno così avrebbe durato poco a prendere quella sferetta, squartandolo.
    - C’è una cosa che non ho mai sopportato di te. Il fatto che tu mi sottovaluti. Sempre.- disse sospirando.
    - Mi dispiace.- premette il grilletto senza esitazione.
    Nessun rumore, nessun suono, niente sangue. Niente di niente soltanto un ‘click’.
    - Bang!...- sghignazzò.
    - Vedi di non farti mai più vedere da noi. La prossima volta non sarai così fortunato.- disse riponendo l’arma nella fondina che aveva nella cintura di pelle accanto all’astuccio delle munizioni.
    Sorrise Elagabal. Sapeva perfettamente che lo avrebbe rincontrato.
    Si voltò e dopo aver dato un occhiata in giro in quella campagna sperduta in mezzo al nulla, così come era arrivato montò in sella alla sua moto e se ne andò: in volto il tramonto e dietro il passato.
    La sua unica possibilità di riscattare la propria libertà l’aveva sprecata con quel colpo a salve.
    Avrebbe dovuto faticare molto, e inventarsi una scusa, anche se alla fine si sentiva soddisfatto, perché Dragan nel momento in cui aveva premuto il grilletto era percorso da brividi, il che voleva dire che non era affatto svenuto ma cosciente.
    E per la prima volta era stato lui, Elagabal Mikarus, a incutergli timore, e soprattutto gli aveva dimostrato quanto aveva imparato da lui nell’arte del fingere.
    Chissà che cosa gli si era preso, lui il gelido assassino della Novarus che risparmia un nemico inerme che ha fatto andare a rotoli tutti i suoi piani.
    Non pensava davvero che in un angolo sperduto del suo cuore potesse prendere posto qualcosa come 'l'amicizia' che un tempo lo legava a Dragan, che lui pensava fosse stata eliminata che lui stesso aveva deciso di eliminarla quel giorno in cui loro il loro mondo si frantumò, in cui caddero in quell'incubo senza fine.
    Il giorno in cui il loro destino prese il nome di 'Gladiator'.
     
    Top
    .
0 replies since 20/4/2024, 00:02   2 views
  Share  
.